’NDRANGHETA
Il boss collabora, 34 a processo
Disposto il giudizio immediato per gli indagati dell’operazione Krimisa

Si è arreso Emanuele De Castro e questo spiega il motivo degli improvvisi trasferimenti degli indagati in altri penitenziari e della revoca inaspettata dei difensori storici, con la scelta di penalisti specializzati nel gestire le collaborazioni.
A quanto pare il cinquantunenne, che per decenni ha spadroneggiato nella cosca locale della ‘ndrangheta, ha deciso di aprirsi agli inquirenti. Ieri è stato notificato il giudizio immediato per i trentaquattro indagati sottoposti a misura cautelare nell’ambito dell’operazione Krimisa. E proprio a carico di De Castro emergono nuove contestazioni legate alla detenzione di armi.
Detto in parole povere non più tardi dello scorso 11 settembre gli investigatori hanno individuato in un terreno di via Trieste due candelotti di esplosivo di oltre due chili e mezzo in gel ad alto potenziale, il Tutagex 821. La detenzione è contestata al pregiudicato di origini siciliane ma adottato dalla cosca calabrese di Cirò Marina e ad altri soggetti per ora ignoti.
L’ipotesi più accreditata è che quelle bombe al plastico le abbia fatte ritrovare proprio lui nell’alveo di una redenzione criminale che potrebbe portare presto a sviluppi. L’avvocato Adriana Fiormonti sta meditando la richiesta di rito abbreviato, la data indicata per l’udienza dal gup è il 9 dicembre, entro quel giorno anche gli altri trentatré coimputati avranno scelto con quale rito farsi giudicare.
Tra loro ci sono anche l’ex consigliere comunale di Ferno Enzo Misiano, in quota a Fratelli d’Italia, gli storici boss Vincenzo Rispoli e Mario Filippelli, il figlio di Rispoli Alfonso, il figlio di De Castro, Salvatore.
Secondo la direzione distrettuale antimafia - che ha portato a termine le indagini avviate dall’allora pm di Busto Rosaria Stagnaro - la ‘ndrina lonatese operava per raggiungere obiettivi precisi: acquisire la gestione di attività economiche soprattutto nel settore dei parcheggi del sedime di Malpensa, ottenere appalti pubblici e privati attivando i canali istituzionali «opportunamente e preventivamente compulsati» e, aspetto piuttosto allarmante, ostacolare il libero esercizio del voto, procurandosi consensi elettorali.
A parere della procura, gli imputati attigui all’ambiente politico riuscivano a far convogliare le preferenze sui “loro” candidati in cambio «di future utilità», così «determinando uno stabile condizionamento delle amministrazioni locali».
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