DELITTO MACCHI
Binda: «La mia vita faticosissima. Ho subito due ingiustizie»
Ricorso in Cassazione dopo il taglio del risarcimento per la detenzione. Alla Prealpina dice: «Mi indigna vedere uno Stato bottegaio: nella mia difesa sono sempre stato chiaro»
La scelta di ricorrere in Cassazione contro la decisione della Corte d’Appello di Milano di “tagliare” di un terzo l’indennizzo per ingiusta detenzione. L’amarezza di fronte a uno Stato «bottegaio», che prima «ti prende per strada» e ti accusa di aver commesso uno stupro e un omicidio, e poi non paga per un errore durato tre anni e mezzo (quelli appunto del carcere). Infine la denuncia della «doppia ingiustizia» che è stata consumata in questi anni, ingiustizia nei confronti di un innocente, ma anche nei confronti di Lidia Macchi, il cui assassino resta sconosciuto quando sono ormai passati quasi 38 anni dal delitto di Cittiglio. Stefano Binda, 57 anni, parla con La Prealpina nel salotto della sua casa di Brebbia, circondato come sempre dai libri, tanti libri. Oggi la sua vita, dice, è «faticosissima», per le conseguenze, ancora, del suo arresto del gennaio 2016 come presunto colpevole dell’omicidio Macchi (la Cassazione l’ha assolto in modo completo e definitivo nel 2021). Ma è anche una vita ricca di impegni e passioni. Lavora come volontario in carcere, nella sua parrocchia e nella sua comunità. Legge e studia. Non si arrende alla macchina dello Stato che vorrebbe chiudere così la sua storia: «Un po’ se l’è voluta».
Stefano Binda, quasi 38 anni dopo la morte violenta della ventenne Lidia Macchi e quasi nove anni dopo l’inizio della sua ingiusta detenzione, a che punto siamo?
«Mi hanno indagato per l’omicidio nel 2015 e arrestato nel 2016, trent’anni dopo i fatti e nonostante io sia sempre rimasto qui, sotto gli occhi di tutti. A Varese sono stato condannato all’ergastolo nel 2018 per stupro e omicidio e poi nel 2019 sono stato assolto dalla Corte d’Appello di Milano con sentenza confermata nel 2021 dalla Cassazione. Io ero e sono pienamente e completamente innocente, e per questo, come prevede la legge, due anni fa ho chiesto tramite i miei legali, gli avvocati Patrizia Esposito e Sergio Martelli, un indennizzo per l’ingiusta detenzione che ho subito. All’indennizzo ha detto sì la Corte d’Appello, ma poi la Cassazione, dopo il ricorso della Procura generale e dell’Avvocatura dello Stato, ha stabilito che c’era stato un “difetto di motivazione”. Così la Corte d’Appello ha riesaminato il caso ed è di questi giorni la notizia che sono stato riconosciuto meritevole d’indennizzo, e questo è un dato di grande soddisfazione, ma che il “quantum” dev’essere ridotto per un profilo di colpa, lieve, da parte mia dal punto di vista civilistico, perché, ripeto, io penalmente non ho fatto nulla. E cioè per il comportamento che ho tenuto nel corso dell’iter giudiziario».
L’intervista integrale sulla Prealpina di domenica 29 settembre, in edicola e disponibile anche in edizione digitale.
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