L’INTERVISTA
Uto Ughi, 80 anni di magia
Il Maestro domenica al Teatro Tirinnanzi di Legnano. «Auditorium a Busto? Bene se con l’acustica appropriata»

«Screzi con Busto Arsizio? Guardi, sono invenzioni. Io Busto Arsizio la porto nel cuore come si tengono care le proprie radici. Anzi sono felice che la città stia per dotarsi di un Auditorium perché c’è tanto bisogno di allargare la platea dell’ascolto a tutti. In particolare ai giovani. Solo un consiglio: la musica va ascoltata al meglio e per farlo serve uno spazio in cui l’acustica sia la prima e non l’ultima preoccupazione d’un progettista».
Uto Ughi ritorna (quasi) a casa: domenica 28 gennaio, alle 17, salirà sul palco del Teatro Tirinnanzi di Legnano per offrire l’ennesimo saggio della sua classe cristallina sulle quattro corde infernali (per chi le suona) eppure paradisiache (per chi ascolta esecuzioni come quelle del Maestro) del violino.
Accompagnato al piano dal Maestro Leonardo Bartelloni, Ughi si esibirà in un programma che spazia nei secoli della Grande Musica: da Bach a Brahms, da Dvorak a De Falla, da Giuseppe Tartini e Tommaso Vitali a Saint-Saëns, segno d’una predisposizione straordinaria a interpretare la musica nella sua massima espressione: la condivisione di un’emozione in nota.
Traguardata la linea invidiabile degli ottant’anni lo scorso 21 gennaio, Ughi approda al palcoscenico legnanese con un’emozione in più.
«Certo - confida - suonare a due passi da casa offre una sensazione particolare. Non foss’altro perché squaderna pagine del passato cui sono legato, a cominciare dalla mia infanzia».
Un’infanzia da talento precoce del violino.
«Ma sa, la fortuna della gioventù dei miei tempi era l’assenza della televisione. Così non solo era più agevole socializzare ma anche più facile che un paio di volte alla settimana arrivasse a casa dei tuoi genitori un grandissimo musicista qual è stato Ariodante Coggi, il mio primo maestro. Lui suonava con Arturo Toscanini e dal grande Forbsòn (forbicione, ndr) aveva tratto un piglio tutt’altro che accondiscendente con l’approssimazione. Però quando si accomodava nel salotto di casa e dava vita a quei concerti domestici, facendo risuonare le partiture di Mozart insieme con mia madre e mio padre, le assicuro che c’era solo da rimanere incantati. È lì che, ancora bimbetto, ho subito la fascinazione della musica classica. Ed è così che l’ho seguito alla sua scuola di Varese».
Oggi i giovani subiscono ben altre fascinazioni musicali. C’è un motivo?
«Certo, come per tutte le cose di questo mondo. Abbiamo istituzioni incapaci di comprendere il valore immenso del nostro patrimonio musicale e di conseguenza perdiamo per strada una quantità enorme di possibili talenti. Ma soprattutto priviamo la nostra gioventù della Bellezza».
La musica classica è disciplina. Non sarà che sia proprio quest’idea a spaventarli?
«No e le spiego perché. Ci sono Paesi che hanno saputo costruire un sistema scolastico e d’ascolto attingendo alla cultura musicale europea. Alludo al Giappone ma anche al Venezuela così distanti tra loro culturalmente: se s’insegna la musica a scuola non come un passatempo ma come una vera disciplina e se si offre a tutta la società, come fece, proprio in Venezuela, José Antonio Abreu con le fasce meno agiate della popolazione, la passione prende il sopravvento sullo sforzo quotidiano dell’apprendimento. Uno sforzo che tutt’ora affronto ogni giorno perché, citando Niccolò Paganini, Se non studio per un giorno me ne accorgo solo io, se non studio per due giorni se ne accorgono tutti. Proprio questo sforzo sublima la musica che è, innanzitutto, condivisione di Bellezza».
Alle nostre latitudini, la soluzione a questa lacuna culturale sembra però complicata.
«Sembra, appunto, ma non lo è. Basterebbe un ministro della Cultura attento e lungimirante per ripartire dalle basi. Il guaio è che ci si è fermati a Sanremo».
A proposito, tra un paio di settimane ci sarà la settimana sanremese. Che ne pensa?
«No comment».
Lei ha condiviso la sua esperienza di musicista e di docente con alcuni dei più grandi interpreti del Novecento: George Enescu, che fu suo mentore all’Ecole Normale, ma anche il chitarrista Andrés Segovia, il violoncellista Pau Casals e il pianista Arthur Rubinstein, suoi colleghi d’insegnamento alla Chigiana...
«Capirà il senso di quel no comment che non vuol essere un atto di presunzione né tanto meno di spocchia, semmai di rammarico. In Italia abbiamo un’ottantina di Conservatori e pochissime orchestre e per questo sto provando a dare il buon esempio e a rimediare alla mia lacuna: temo di non essermi speso abbastanza per i più giovani. Così lo scorso ottobre ho dato vita alla fondazione che porta il mio nome e che è diretta da Natascia Chiarlo, mia collaboratrice artistica».
Un comincio a ottant’anni.
«La musica, mio caro, quand’è condivisione di Bellezza, non teme il tempo. Ma la prego, lasciamo perdere la conta dei miei anni...».
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