CORONAVIRUS
«Attenti a pensare positivo»
Rischio di un cortocircuito mentale: «La mente si prepara alla fase due, ma la libertà non c’è»

Pensare positivo viene più semplice, anche nel dramma della pandemia, quando vi sono realmente notizie che lasciano sperare in un miglioramento della situazione.
C’è chi comincia a non poterne più delle restrizioni. «Il problema è che le notizie positive sulla battaglia al coronavirus portano ad avere una ridotta percezione del pericolo, quindi ad avere comportamenti non controllati e potenzialmente rischiosi», Nicola Poloni, medico psichiatra all’ospedale di Circolo e ricercatore all’università dell’Insubria , racconta che si tende, in pratica, ad uscire, ad avvicinare altre persone, a non rispettare il distanziamento sociale, a raccontare come la fase due che si avvicina abbia, dal punto di vista psicologico, un rovescio della medaglia.
Pensare che tutto andrà bene è dunque un errore?
«È una reazione naturale: ci si attiva, si fanno progetti per il proprio futuro, si guarda avanti, il problema è che bisogna fare i conti con le misure restrittive che vanno rispettate».
Intravedere all’orizzonte un allentamento delle misure di contenimento che cosa causa alla nostra mente?
«Cominciamo con il dire che l’isolamento prolungato può portare a un disagio psichico vero e proprio. Quando ci viene detto che qualcosa cambierà o lo intuiamo ma poi questo abbassamento delle misure restrittive tarda a realizzarsi, spesso cresce la sensazione di non potercela fare: la mente si prepara, spostiamo l’asticella delle aspettative ma se poi ciò che abbiamo atteso non si verifica. La cosa può diventare davvero dura da sopportare».
Ci sentiamo in prigione, dunque?
«In questa fase così complicata, è come se, con le dovute proporzioni, fossimo tutti un po’ carcerati. La privazione della libertà acquisita è un valore, una condizione anche mentale, mai messa in discussione».
Che cosa accade alla nostra psiche quando ci sentiamo in gabbia?
«Si possono ingenerare ansia e depressione e una sensazione di claustrofobia, perché nulla si può fare per modificare questa improvvisa mancanza di libertà che riguarda tutti. C’è poi l’aspetto contraddittorio rappresentato dal fatto che chi esce e può farlo è perché di solito è costretto, cioè gli operatori sanitari o chi svolge un lavoro che non può essere svolto in smart working».
E così scattano o la depressione o, al contrario, il bisogno di evasione?
«Trovare un equilibrio tra le notizie positive, quindi il pensare positivo e la realtà che ancora non consente il ritorno alla vita di prima, questo è il compromesso difficile da trovare. Se poi si è venuto a contatto con il dolore vero, se si è stati colpiti dal virus, nei propri affetti o se lo si vive quotidianamente per lavoro, per esempio tra medici e infermieri, è diverso, naturalmente. Per tutte le altre persone che sono state colpite nei comportamenti imposti dalle regole ma non negli affetti e non hanno avuto un coinvolgimento diretto in queste situazioni drammatiche, la reazione potrebbe essere quella di dire: “Capita agli altri, ma a me no, non può”. Reagire alle difficoltà sentendosi invincibili è un meccanismo, un atteggiamento difensivo, più che di superficialità».
In che modo aiutare i cittadini a resistere?
«Elemento fondamentale è l’informazione: si resiste meglio e in modo sano se si ricevono informazioni chiare e adeguate: le informazioni confuse, invece, sono potenzialmente pericolose perché possono causare ansia e depressione e addirittura prefigurare elementi psicopatologici: le fake news e la loro rapidità di diffusione sono pericolose».
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