ASST 7 LAGHI
Chi cura i pazienti con il casco
I medici dedicati ai malati di Covid in Cpap, astronauti per respirare. Il responsabile del Servizio di Anestesia Carlo Capra: «Ai miei insegno a non fare mai mancare il calore umano»

«Quando togliamo il casco ai nostri pazienti e dunque l’ossigeno, spesso leggiamo la titubanza nei loro occhi, come avessero timore della guarigione, perché significa non avere più accanto gli anestesisti: per noi un grande riconoscimento dell’attività svolta».
Carlo Capra è il capo degli anestesisti che seguono i pazienti in Cpap, cioè con il casco per la respirazione. Una figura di medico che non è riconducibile a un solo reparto e che nell’emergenza sanitaria gira tra i pazienti positivi al coronavirus per capire e “correggere” la respirazione sostenuta appunto dall’ossigeno che viene diffuso tramite un casco.
«Seguiamo tutti i pazienti che vengono visitati e valutati - spiega Carlo Capra che è anche a capo del Dipartimento di Anestesia e Rianimazione dell’Asst Sette Laghi -. Li valutiamo perseguendo una stabilità sulla base di alcuni parametri precisi».
Si prende in considerazione l’ossigenazione, la meccanica respiratoria polmonare, si aiutano i pazienti a sedersi, se serve per “aprire” i polmoni, li si aiuta a mettersi a pancia in giù, cosa tutt’altro che semplice soprattutto se costretti in stile “astronauta”.
«Non facciamo mai mancare loro una carezza, diamo anche da mangiare ai pazienti e cerchiamo di trasmettere calore umano che in questa fase, tutti bardati noi e loro sotto un casco, è un bene inestimabile in assenza dell’assistenza e dell’affetto tangibile dei parenti - prosegue il dottor Capra -. Sembra una cosa secondaria, non lo è, ai miei collaboratori è un valore che insegno come il resto della disciplina». Sono 28 i medici in forze al Servizio di Anestesia, 20 dei quali sono stabilmente impegnati, in questa fase, per seguire i pazienti Covid. Gli altri si occupano delle sale operatorie o di dare assistenza angiografica e nel caso di qualunque emergenza intraospedaliera. Non sono i medici rianimatori che si incontrano nelle terapie intensive, quelli dell’équipe del servizio di Anestesia ma che si trovano di solito nelle sale operatorie, i medici esperti che ci fanno addormentare in caso di intervento chirurgico, insomma. L’utilizzo dei caschi è una novità che la maggior parte dei cittadini ha imparato tristemente a conoscere con la pandemia e in particolare in questa seconda fase. Tra i 60 e i 70 i pazienti in Cpap, cioè aiutati nella respirazione con questo metodo non invasivo, ma soltanto pochi giorni fa si era raggiunta una quota allarmante: 100. Per sostenere che si è davvero fuori dall’emergenza massima ospedaliera, bisognerebbe scendere stabilmente sotto i 60 (ieri erano ancora 59 i pazienti con il casco). Ma qual è la funzione della Cpap e che cosa significa?
Cpap è l’acronimo di Continuous positive airway pressure, una metodica che consente, in sostanza, di “stabilizzare” gli alveoli polmonari.
La Cpap dà una concentrazione particolare di ossigeno e consente di “aprire” i polmoni. Con la malattia i pomoni si “imbevono” di plasma, diventano una sorta di spugna: gli alveoli fanno fatica a caricarsi di ossigeno e a cacciare fuori l’anidride carbonica. L’ossigeno dato tramite il casco permettere di stabilizzare la respirazione. Viene utilizzato per tante altre patologie, non è una novità insomma negli ospedali: per le patologie collegate all’insufficienza respiratoria polmonare o per l’edema polmonare acuto. Certo una diffusione del casco come quella raggiunta era impensabile fino all’arrivo del Covid. Il casco non viene tolto all’improvviso e del tutto, quando la situazione migliora. Di solito la cosa avviene in modo graduale. Nelle fasi iniziali della malattia il casco viene tenuto per giorni in modo costante. In una fase successiva viene tolto in modo graduale, fino a “liberare” il paziente che spesso, come detto, si sente quasi perso, non tanto senza quel fastidioso compagno di viaggio attraverso il percorso di guarigione quanto per non avere più l’assidua assistenza dei medici anestesisti. Bisogna imparare di nuovo a respirare “da soli”.
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