CLAN JOVANOVIC
Busto: truffe milionarie, confiscate le case ai rom
Lo Stato si prende le ville della famiglia: specializzati in “rip deal” e raggiri a uomini d’affari stranieri, erano stati arrestati a settembre del 2017
Dalle roulotte ai villoni e poi giù, in picchiata, sul ciglio della povertà. È la parabola di Zoran Jovanovic e del suo clan al cui patrimonio la sezione autonoma delle misure preventive del tribunale di Milano ha dato l’ennesima sfrondata: confiscati in via definitiva un caseggiato di via Ferré intestato alla moglie, composto da tredici locali e acquistato all’asta giudiziaria nel 2014 per un controvalore di 150mila euro e la porzione di un immobile a Lonate Pozzolo equivalente a 68mila euro di proprietà della figlia. Già tre anni fa la guardia di finanza sequestrò a Zoran e alle sue teste di legno immobili e beni del valore di 2,4 milioni di euro.
Ma chi è il cinquantunenne di origine rom? Il pater familias e vertice di un’organizzazione criminale a conduzione parentale, specializzata in rip deal, in cambi di valuta fraudolenti con il sistema hawala, in furti e ricettazione di merce lussuosissima. Lui, i suoi nipoti, i fratelli, i cognati giravano per Busto con fuoriserie al cui confronto una Porsche pareva un’utilitaria. Nel 2016, controllato dalla squadra volante mentre chiacchierava con gli amici in via Cantore, Zoran lo disse sfacciatamente: «Voi sapete quello che faccio, vivo di furti e truffe e non ho paura della polizia».
A settembre del 2017 il clan venne arrestato nell’ambito di un’inchiesta coordinata dal pubblico ministero Nadia Alessandra Calcaterra, che ha poi proposto la confisca alla sezione milanese delle misure di prevenzione. La famiglia slava si toglieva ogni sfizio: oltre alle macchine, l’abbigliamento griffato (a processo la moglie di Zoran si presentò con una borsa di Hermes originale) soldi che cadevano fuori dalle tasche, conti sulla Barclays Bank, una residenza a Rescaldina che loro stessi - si sente nelle intercettazioni - chiamavano «il castello». Un’ostentazione che è tornata loro in faccia come un boomerang: perché l’indagine nacque a novembre del 2015 in un bar vicino alla procura di largo Giardino grazie a un finanziere che in quel momento era fuori servizio. Il militare si era accorto di un tizio dal look non proprio sobrio che pagava un caffè con una banconota da 500 euro. Si incuriosì e annotò il numero di targa della 500 Abarth con cui era arrivato. Svolgendo accertamenti gli investigatori scoprirono che gli Jovanovic erano geni delle truffe a livello internazionale. I loro bersagli erano uomini d’affari russi, iracheni, israeliani a cui offrivano euro in cambio di moneta estera, a un tasso di conversione super favorevole. A metà tra l’alta finanza e il gioco di prestigio, sottraevano denaro usando i tavoli magici: mobiletti dotati di doppi fondi in cui la moneta buona spariva per lasciar spazio a quella contraffatta che veniva rifilata ai grandi manager. C’era tutta una scenografia dietro le frodi insomma: gli appuntamenti per la conversione di valuta - di cui materialmente si occupavano i collaboratori di Zoran - erano sempre organizzati in sale meeting all’interno di alberghi prestigiosissimi a Dubai, Hong Kong. Gli avvocati David Russo, Andrea Rodelli e Mario Tartaglia avevano depositato memorie difensive mirate a dimostrare la provenienza lecita delle loro disponibilità.
Ma il tribunale di Milano, considerati anche i redditi dichiarati, ha ritenuto provate le connessioni con attività illegali e di reimpiego.
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