LA LETTERA
Piccolomo: «Non sono il mostro»
L’ergastolano chiede la revisione del processo per l’omicidio di Carla Molinari

«Voglio il processo di revisione, ho le prove della mia innocenza, io non sono il mostro delle mani mozzate».
Giuseppe Piccolomo irrompe con una lettera dal carcere di Bollate e ritorna a proclamare la sua innocenza.
Pippo lo fa con i modi e con i toni che lo contraddistinguono: sguaiato, irrispettoso nei confronti della magistratura, sfacciato.
«Mi serve un avvocato ma non sono in grado di pagarlo».
Ha messo le mani avanti, vuole un principe del foro o, come scrive lui, «un avvocato con due angurie» ma «non posso pagare l’impegno che verrà messo nel lottare al mio fianco».
Chi dovesse prendersi la briga di chiedere una rivisitazione totale dell’indagine sfociata in ergastolo definitivo, dovrà compiere un atto di fede, una missione. «Io non chiedo vendetta, chiedo giustizia, sono innocente e Dio mi è testimone».
La pronuncia della Cassazione, che ha reso definitiva una sentenza passata indenne a tutti e tre i gradi di giudizio, risale al 10 aprile del 2014.
«Ora sono in grado di dimostrare la mia estraneità alla vicenda. Le accuse nei miei confronti sono state costruite dalla magistratura di Varese», scrive nella lettera inviata alla stampa, adombrando addirittura il sabotaggio di prove a suo discarico.
«Dopo tutte le notti passate a chiedermi il perché, ora sono alla ricerca di un avvocato che voglia far valere il giuramento di far rispettare la legge. Non dico che dobbiate credermi soltanto perché lo dico io, Piccolomo Giuseppe, ho le prove di quel che sostengo».
L’assassino di Carla Molinari si appella a qualsiasi penalista che voglia assumersi l’incarico pro bono.
«Chiunque se la senta, mi contatti e io lo nominerò subito».
Era il 5 novembre del 2009 quando Cocquio Trevisago diventò il polo d’attrazione della cronaca nazionale. L’ottantaduenne, tipografa in pensione, venne massacrata con furia inaudita nella sua villetta di via Dante.
Il corpo martoriato e mutilato delle mani venne trovato dalla polizia di Varese che mise in campo subito la Squadra mobile, all’epoca guidata da Sebastiano Bartolotta. Ventuno fendenti al tronco, nella parte anteriore, e due alla schiena, fatale quello che recise un’arteria polmonare che fece soffocare la pensionata nel sangue. Amputazione e sgozzamento furono successivi al decesso.
Il 26 novembre le indagini coordinate dal pubblico ministero Luca Petrucci portarono all’arresto di Giuseppe Piccolomo, ex ristoratore e imbianchino. Contro di lui numerosi e concordanti indizi: una donna raccontò di averlo visto raccogliere in un bar i mozziconi di sigaretta poi ritrovati nella villa del massacro, l’uomo aveva graffi vistosi sul viso, la sua auto venne inquadrata dalle telecamere nelle vicinanze di via Dante in un orario compatibile con quello del delitto.
Qualche mese più tardi il perito nominato dal gip rinvenne tracce del sangue di Carla su un coltello sequestrato nell’abitazione di Piccolomo e quello fu per gli inquirenti un elemento probatorio determinante.
L’ergastolano, ormai sessantottenne, si è sempre dichiarato innocente, vittima di un complotto, di errori investigativi.
Eppure nel frattempo anche le figlie puntarono il dito contro di lui, attribuendogli l’omicidio volontario della loro madre, Marisa Maldera: in primo grado la Corte d’assise d’appello di Varese ha condannato Pippo a un altro ergastolo e ora è in attesa del processo d’appello a Milano, che non è stato ancora fissato.
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