LA MOSTRA
Once Again, un’onda in continuo movimento
A Palazzo Citterio a Milano il nuovo progetto a cura di Anna Bernardini

Si finge, signori! L’artificio! Once Again, ancora una volta lo spettatore affronta la finzione dell’arte; una finzione reale, salutare e veritiera. “Once Again” è il titolo della personale che Chiara Dynys appronta per la sotterranea sala brutalista di Palazzo Citterio, a Milano: sala Stirling. L’esposizione, a cura di Anna Bernardini, è visitabile fino al 7 settembre. Immerso in un’«azzurrità» (così la curatrice) totale ed avvolgente, un marchingegno “site-specific” porta ad infrangere le sue onde di polistirolo dipinto, montate su tre rulli posti a quote diverse, sulla battigia in compensato, al centro della quale s’innalza la colonna portante della sala sulla cui sommità una sequenza di led esegue la sua perpetua rotazione: l’idea del faro e della sua lampada. (Bisogna rilevarlo: la perfetta armonia con cui questo elemento architettonico è inglobato nell’istallazione testimonia la grande capacità della Dynys di gestire e operare nello spazio).
Sul fusto “once” e sulla battigia “again” (omaggio nicciano, entrambi neon) e altre scritte destinate a sopravvivere al perpetuo abbattersi del moto ondoso invitano chi guarda ad apportarvi il proprio senso. Si è avvolti da un rombo sordo ed indistinto, che, qui, prende la forma del fragore dei marosi, e da una luce azzurra che sfuma l’ambiente e lo incammina verso il reame dell’irrealtà. “Scendere al mare” assume un senso illusionisticamente proprio: stante la conformazione della sala, alla quale si accede da un ingresso sopraelevato rispetto allo spazio espositivo che si raggiunge scendendo uno scalone doppio, il quale, appunto, “porta al mare”. Dall’alto, la visione iniziale è chiara: si colgono senza incertezze la macchina, la sua struttura e i suoi ingranaggi; al livello sottostante, invece, è l’aspetto teatrale e scenico che emerge: l’illusione prodotta da una “macchina scenica seicentesca”.
Illusione, appunto; artificio: si palesa, così, la forza di questo progetto. La capacità, cioè, di giocare l’illusionismo contro sé stesso in un modo preciso: lasciargli sviluppare il suo effetto, la magia ingannatrice senza ch’esso possa scatenarsi senza limite, stupefacendo, ottundendo: lo spettatore è infatti edotto della finzione (vede i meccanismi), ma la consapevolezza dell’artificio svelato non imbraca né ostacola la forza della bellezza poiché quest’ultima, ancorché -o forse proprio perché- mostrata nel suo meccanismo fantasmatico, non degrada a mero spettacolo offuscante. Permane, dunque, la possibilità di avvicinarsi a questa istallazione sotto un doppio punto di vista: quello dell’analisi e quello della sensazione. Ma è proprio questo doppio piano che la macchina scenica ribalta su sé stesso. L’opposizione comune e quotidiana ragione/intuizione si confonde e si mischia (‘plasticamente’ resa dal pervasivo e soffuso lucore celeste che ammanta l’ambiente intero) nella potenza espressiva ed ammaestratrice di questa messa in scena.
Della ricerca artistica di Chiara Dynys emergono alcune tipicità: lo studio sulla luce e sulla sua funzione relazionale, di medio tra lo spettatore e lo spazio+l’opera; il concetto di ‘soglia’ che in questa mostra si sviluppa sia come ‘passaggio’ (l’ingresso alla sala è coronato da “Blue Gate”, 2025, scultura in vetro e acciaio che ricorda un portale o una porta cittadina) sia come luogo da cui rimirare (la battigia oltre la quale non si può procedere fisicamente ma solo gettare lo sguardo che può farsi indagine, contemplazione, semplice osservazione); l’aspetto ludico, istrionico e le artificiose enfatizzazioni che si presentano in vari coefficienti nel corso dell’intera produzione della Dynys, a partire dagli anni Novanta.
Di fronte a questa grande macchina, a questo «riferimento alla grande cultura antica, barocca e alla dimensione dell’artificio di quest’ultima» - nelle parole di Anna Bernardini - è lecito chiedersi come può reagire lo spettatore contemporaneo, senz’altro smaliziato al cospetto di un effetto “artigianale”, abituato come è agli effetti specialissimi della cinematografia ed ora, anche, alle produzioni della cosiddetta “IA Art”, l’arte prodotta con l’apporto (in qualunque modo quest’apporto si materializzi) delle rete neurali capaci di giungere ad effetti visivi vividissimi ed incredibili simulazioni video; e allora, che senso ha proporre questa costruzione con rulli meccanici, ingranaggi, polistirolo, legno… in un mondo in cui con i computer (se non questi ultimi stessi) si raggiungono risultati assolutamente illusionistici? Ha il senso di porsi come testimonianza, resistenza della necessità del lavoro della mano immaginifica. «La mia scultura - dice l’artista - è anche il sogno dell’esecuzione; un sogno tridimensionale, vivente...».
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