CONTROPASSATO PROSSIMO
Il Trattato obbligato, la nuova Italia

Parigi, palazzo Quai d’Orsay, 10 febbraio 1947. Ore 11. Dopo quasi due anni dalla fine della guerra, nella «Sala dell’Orologio» inizia la cerimonia della firma dei Trattati di Pace. Puntualissimi, i 21 plenipotenziari sono riuniti intorno a un maestoso tavolo ovale: l’inglese Duff Cooper, l’americano Jefferson Caffery, il cinese Tsien Tai, il sovietico Bogomolov, e tutti gli altri.
Il cerimoniere, il ministro George Bidault, prende la parola: «la data del 10 febbraio 1947 - dice - rappresenta la fine di sei anni di una guerra terribile e di una sofferenza senza pari». Ha ragione, e adesso gli sconfitti devono pagare il prezzo: Italia, Ungheria, Romania, Bulgaria e Finlandia sono convocati alle 11 e 15. Ovviamente, manca la Germania: al momento non è nemmeno uno Stato, è divisa in due e occupata dai quattro «Grandi».
De Gasperi, il capo del governo, è rimasto a Roma. A rappresentare l’Italia, il plenipotenziario Antonio Meli Lupi di Soragna: non un politico, ma un diplomatico di lungo corso, scelto apposta per sottolineare un adempimento obbligato e formale. In effetti, il Trattato è un diktat, e l’Italia può solo firmarlo, senza alcuna possibilità di modifica.
In realtà, De Gasperi ci ha provato l’estate prima alla Conferenza di Pace, sempre a Parigi, con un discorso emozionante: «Prendendo la parola in questo consesso mondiale - aveva detto il 7 agosto - sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia è contro di me».
De Gasperi aveva capito: era già tutto deciso. Eppure, alcuni si sono illusi sulla benevolenza degli inglesi e degli americani. Del resto, a metà guerra Mussolini era stato cacciato, il Regno del Sud aveva dichiarato guerra alla Germania e la Resistenza aveva contribuito agli sforzi bellici. Insomma, si sperava che i vincitori avrebbero fatto una distinzione tra il fascismo e «l’Italia vera». Speranza vana: quell’Italia non è mai stata considerata «alleata», ma solo «cobelligerante».
Così, il preambolo del Trattato riconosce la «parte attiva» svolta dal Paese dopo il 1943 ma, soprattutto, ricorda che ha intrapreso «una guerra di aggressione», e quindi gli spetta «la sua parte di responsabilità».
Insomma, l’Italia ha perso la guerra e il prezzo da pagare è altissimo: 360 milioni di dollari da sborsare, la cessione di gran parte della flotta, la perdita delle colonie e dei comuni di Briga e Tenda. Soprattutto, alla Jugoslavia passa gran parte della Venezia Giulia, tutta l’Istria, Fiume e Zara. Un vero disastro: circa 250 mila persone stanno già abbandonando le loro case in un clima tragico, assurdo e teso, legato anche al ricordo delle «foibe».
Soragna è puntualissimo. Lo accompagnano nella sala contigua, la «Galleria della Pace». È freddo e silenzioso. Di fronte a lui, sul tavolo, il Trattato - in tutto 90 articoli - e sei penne con il pennino d’oro. Il diplomatico però prende la sua stilografica personale e firma. Poi, poiché la nuova Repubblica non ha ancora uno stemma, imprime sulla ceralacca l’impronta del suo anello con lo stemma di famiglia: un lupo rampante, un cervo e un’aquila bicipite.
La cerimonia è veloce: alle 11 e 30 è tutto finito. Contemporaneamente, nel Paese scatta lo sciopero generale per 10 minuti in coincidenza della firma: tram e autobus si fermano. I negozi chiudono e sui balconi compaiono tricolori e bandiere a mezz’asta. Tutto, però, con grande dignità, ordine e compostezza.
Così, si chiude quella fase della Storia d’Italia. Un trattato forse ingiusto e troppo pesante, la cui responsabilità ricade tutta sul fascismo e sul suo Duce. Ma l’Italia era distrutta, priva della possibilità di sostentarsi senza aiuti, isolata a livello internazionale.
Firmare significava mettere una pietra tombale sul passato e la possibilità di ricostruire e ripartire, ottenere il Piano Marshall, entrare nell’Onu con gli stessi diritti delle altre Nazioni. Nondimeno, con quel vulnus reale, lacerante e drammatico: perché alla fine le popolazioni del confine orientale - e solo loro - stavano pagando per intero il disastro in cui Mussolini aveva trascinato tutta l’Italia.
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