L’INTERVISTA
Termine: «Linguaggio digitale specchio della psiche»
Parola al neuropsichiatra. Meme, slang, emoji, gif hanno implicazioni sia positive che negative

Il linguaggio degli adolescenti è il riflesso di un cambiamento sociale, culturale e psicologico. Ne abbiamo parlato con Cristiano Termine professore ordinario di Neuropsichiatria infantile dell’Università degli Studi dell’Insubria di Varese e responsabile della Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza dell’Asst Sette Laghi.
Professore che rapporto c’è, se c’è, tra ricchezza del linguaggio e salute mentale?
«Esiste un rapporto tra ricchezza del linguaggio e salute mentale, anche se non è lineare né univoco. È un tema complesso che coinvolge diverse discipline: psicologia, linguistica, neuroscienze e psichiatria. Il linguaggio è uno degli strumenti principali attraverso cui esprimiamo pensieri, emozioni e relazioni. Pertanto una maggiore ricchezza linguistica può riflettere: maggiore flessibilità cognitiva, una mente più organizzata e riflessiva, maggiore capacità di autoregolazione emotiva. Al contrario, un linguaggio povero, rigido o disorganizzato può essere un segnale di disabilità intellettiva, di un contesto socio-culturale deprivato e di alcune condizioni psichiatriche. La ricchezza e la qualità del linguaggio è un indicatore (non una garanzia) di salute mentale, in quanto riflette e sostiene la complessità del pensiero, la consapevolezza emotiva e la capacità di comunicazione interpersonale. Ma attenzione, avere un linguaggio ricco non significa automaticamente essere in buona salute mentale, ad esempio ragazzi con un buon linguaggio formale possono comunque soffrire profondamente (a volte mascherando il disagio), e viceversa alcune persone con linguaggio semplice o poco articolato possono essere pienamente sane e serene».
In alcuni casi, i disturbi psicologici possono manifestarsi nel linguaggio. Che segnali un genitore deve tenere sotto osservazione?
«Ad esempio nella depressione il linguaggio spesso è più piatto, monotono, ripetitivo, con frequente uso di parole a contenuto negativo (“Non valgo niente”, “Sono stupido”, “Non servo a niente”). Anche il linguaggio non verbale è importante: la mimica facciale è spesso poco espressiva. Nei soggetti ansiosi l’eloquio può essere più veloce e caotico. Nella schizofrenia il linguaggio può trasmettere la disorganizzazione del pensiero con salti logici e incoerenze. Nel disturbo dello spettro autistico il linguaggio è spesso peculiare, con uso atipico delle parole o difficoltà pragmatiche. Nel mutismo selettivo il bambino/ragazzo parla normalmente in famiglia, ma non parla affatto in altri contesti, correlato di ansia sociale. Infine, non dimentichiamo che scarse competenze linguistiche possono essere dovute ad un disturbo primario del linguaggio, molto comune nella popolazione infantile con aumentato rischio di sviluppare sintomi depressivi, ansia e bassa autostima, soprattutto nel contesto scolastico. Quando preoccuparsi davvero? Quando il comportamento linguistico è diverso dal solito, persiste per più di qualche settimana, impatta negativamente la scuola, le relazioni o la vita quotidiana, è associato ad altri segnali: insonnia, isolamento, somatizzazioni, scatti d’ira, ritiro sociale. In questi casi è necessario ascoltare senza giudicare, anche quando le parole fanno paura o sembrano “sbagliate”, fare domande aperte, non minimizzare ma nemmeno allarmarsi troppo. Condividere quanto osservato con il pediatra o il medico di famiglia per valutare eventuali approfondimenti in ambito psicologico».
Da una prospettiva psichiatrica, il linguaggio digitale come può influenzare la salute mentale?
«L’evoluzione del linguaggio giovanile in ambito digitale - tra meme, slang, abbreviazioni, emoji, gif e tormentoni virali - è un fenomeno potentissimo, e da una prospettiva psichiatrica ha implicazioni sia positive sia negative sulla salute mentale dei giovani. L’uso intensivo dei social espone gli adolescenti a un costante flusso di feedback esterni (like, commenti, confronti) che può instillare insicurezza, abbassare l’autostima e favorire comportamenti ossessivi o competitivi tra coetanei. L’utilizzo di termini come “chopped” (traducibile con “sei messo male” relativamente all’aspetto fisico o allo status sociale) o di espressioni come “bop” utilizzata per etichettare le ragazze come “promiscue”, possono rappresentare una forma di cyberbullismo e shaming, con possibili conseguenze psicologiche come depressione, ansia e sfiducia nei rapporti sociali. Pertanto è necessario intervenire sui fenomeni di bullismo linguistico, sensibilizzando su slang offensivi o umilianti, educando all’empatia e al rispetto. Emerge inoltre sempre più l’uso di un linguaggio con funzione di condivisione emotiva online e “sadfishing”, ovvero esprimere o esagerare disagio emotivo sui social media per attirare compassione. Questo comportamento può esporre i giovani a rischi come bullismo o adescamento, e allo stesso tempo ridurre la credibilità di chi ha problemi reali. Relativamente ai digital media, si consideri, inoltre, che il continuo consumo di contenuti rapidi e superficiali (tipico di TikTok), indicato come brain-rot, è un fenomeno che può compromettere attenzione, memoria e capacità di elaborazione profonda».
La salute mentale oggi è di moda, quali sono i pro e i contro?
«Oggi la salute mentale è diventata un tema mainstream, presente nei social, nei media, nella musica, nei podcast, perfino nel marketing. Da un lato è un’enorme conquista culturale. Dall’altro, c’è il rischio reale di una banalizzazione e di un etichettamento eccessivo o improprio. Consideriamo l’aspetto positivo, negli ultimi decenni parlare di ansia, depressione, traumi non è più un tabù, per cui le persone si sentono più libere di chiedere aiuto, di raccontare le proprie fragilità, di normalizzare il disagio e i social hanno dato voce a esperienze soggettive che prima restavano invisibili. Questo ha permesso a molti di sentirsi meno soli e ha ridotto in parte lo stigma psichiatrico. D’altro canto l’abuso di etichette psicologiche può banalizzare i disturbi mentali, generando confusione tra sofferenza reale e esperienze emotive temporanee. Etichette errate o affrettate possono inoltre innescare un effetto di “profezia che si auto-avvera” e aggravare sintomi che sarebbero stati transitori. Si corre spesso il rischio di diagnosi fai-da-te: è sempre più comune sentir dire “Sono bipolare”, “Ho l’ansia sociale”, “Sono un po’ OCD” senza una vera valutazione clinica, ma basandosi ad esempio su test online o contenuti superficiali».
L’articolo completo sulla Prealpina di oggi, sabato 6 settembre, disponibile in edicola e in edizione digitale
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