L’INTERVISTA
«Codice d’appartenenza, non solo linguaggio»
Il professor Andrea Bellavita: «I giovani si riconoscono così. Lo slang dei ragazzi è un elemento tecnico che si adatta a nuove esigenze comunicative»

Sono vicino a noi, talvolta vivono sotto il nostro stesso tetto, ma parlano (anche) una lingua diversa dalla nostra e incomprensibile. Una lingua che si trasforma, che diventa «straniera» quando si rivolge ai coetanei, e si normalizza quando i giovani parlano con gli adulti. Perché ai giovani serve un linguaggio creato da loro e fatto apposta per loro?
«Che il linguaggio giovanile sia comprensibile solo ai giovani non è fenomeno nuovo, ma la sua segmentazione e la sua rapidità sono inedite – risponde Andrea Bellavita, docente di storytelling e fiction tv nel corso di laurea di storie e storia del mondo contemporaneità dell’università dell’Insubria - il linguaggio giovanile non è un blocco unico, ma si divide in micro-lingue che definiscono chi lo parla. Un adolescente usa un vocabolario specifico, con termini come “te lo flexo” o “Amo’“, solo con i suoi pari, e in un modo che definisco “immersivo.” È un codice di appartenenza. Quando lo stesso giovane parla con un adulto, un genitore o un professore, questo linguaggio scompare. Questo dimostra una fortissima consapevolezza del contesto e della funzione del linguaggio. I giovani sanno benissimo quando usare il loro gergo per marcare una differenza e affermare un’identità di gruppo».
Facciamo per prima cosa chiarezza: linguaggio e gergo sono sinonimi?
«Diciamo che sono parenti molto stretti: il linguaggio è il modo in cui vengono codificate le forme con cui comunichiamo, il gergo è un sotto-insieme specifico, condiviso da un gruppo più ristretto».
Il linguaggio giovanile ha una “data di scadenza”. Si sviluppa e viene dimenticato, giusto?
«Esatto, un esempio è il termine “Zia”. Come “Bro”, Zia viene utilizzato in modo amichevole per identificare amici molto vicini. Poi si dimentica questa connotazione giocosa e lo si usa per esprimere un grado di parentela, ma anche per esprimere una critica implicita nei confronti dell’interlocutrice».
Si ha l’impressione che i linguaggi giovanili, con le parole nuove a cui danno luogo, cambino molto velocemente. Cosa influenza questa velocità? E le serie TV o i film, come Skam, hanno ancora un ruolo in questo?
«A differenza di un tempo, quando fenomeni come il “paninaro” venivano diffusi dalla TV, oggi i media tradizionali sono quasi sempre in ritardo rispetto alle evoluzioni linguistiche. Le serie TV come Skam, che provano ad essere fedeli alla vita dei giovani anche nel modo di parlare, rischiano di essere obsolete già al momento della messa in onda. Il vero “motore” del cambiamento linguistico sono i social media, come TikTok e Instagram. Lì il linguaggio si evolve in tempo reale. Un altro elemento di novità rispetto al passato è da cercare nelle differenze anagrafiche, che sono molto più marcate: due o tre anni di differenza possono bastare per distinguere due “lingue” giovanili diverse. Un sedicenne e un diciottenne percepiscono già forti differenze nel loro modo di comunicare. Le generazioni precedenti non avevano social network e l’identità passava ad esempio dalla moda, che cambia in modo più lento, cosa che consentiva una vicinanza tra persone nate nelle stesse decadi. Adesso non ci vuole nulla per costruire un nuovo trend. Esperienze come “parlare il corsivo”, con le vocali strascicate, sono durate poche mesi».
Il linguaggio è un fenomeno spontaneo o ha bisogno di regole, come ad esempio le regole grammaticali?
«Il linguaggio è una forma fondamentale di identità di gruppo, nazionale, di classe, si basa su un riconoscimento per differenza. Come i colori delle gang, si basa su qualcosa che rende riconoscibile ai suoi simili chi lo parla. Riconosciuto dai coetanei, percepito per differenza dagli adulti. Si adatta al mezzo di comunicazione più utilizzato. Quello dei giovani è un linguaggio veloce, pieno di abbreviazioni, senza punteggiatura, con termini mutuati dalla lingue straniere, ma non parlerei di regole grammaticali condivise. Anzi, si caratterizza per non considerare le regole della grammatica classica».
Alla luce di questo, si può parlare di una regressione o di una “involuzione” della lingua?
«Assolutamente no, il linguaggio non è mai un’involuzione. L’idea che il linguaggio giovanile sia un passo indietro è un luogo comune. È un elemento tecnico che si adatta a nuove esigenze comunicative. Quando un ragazzo usa una “k” al posto di “ch” o omette la punteggiatura nei messaggi, non lo fa per ignoranza, ma per seguire una grammatica e un ritmo più veloci e fluidi, tipici della comunicazione online. La lingua è un sistema dinamico che si evolve e si trasforma continuamente. Le “involuzioni,” se mai, sono più profonde e riguardano l’uso meno frequente di subordinate o di strutture grammaticali complesse, ma questo è un fenomeno che spesso riguarda anche gli adulti. Il linguaggio dei giovani non impoverisce la lingua, la difende e la rende più adatta a un mondo che cambia. Ogni generazione ha avuto il suo gergo, e ogni gergo, per sua natura, è effimero. Dobbiamo accettare che la lingua si evolve, e non temere che la sua forma attuale sia l’unica corretta. Poi però non pensiamo che l’utilizzo di punteggiatura o di un congiuntivo sia una cosa da boomer, perché la complessità della lingua è una ricchezza, che porta ad esprimere concetti difficilmente veicolabile con emoticon e parole abbreviate. Quindi teniamoci cara la lingua italiana».
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