LA MOSTRA
Ljubodrag Andric: architetture e spazi diventano astrazione
Il maestro serbo fa dialogare pittura, scultura e fotografia. Alla Building Gallery di Milano sono esposte circa 20 opere

Che l’essere umano non abbia un occhio tattile, in grado cioè di toccare vedendo, è il rimpianto che si avverte pungente dopo aver visitato la personale di Ljubodrag Andric Spazi, soglie, luci, per la cura di F. Tedeschi. In verità, non si dovrebbe scrivere di questa mostra -dovrei descrivere foto di muri, di pavimenti, di archi-; ma solo scrivere: andate a vederla! Andric (Belgrado, 1965) fotografa architetture; ma in un modo per cui esse diventano unicamente motivi sui quali il suo pensiero e talento si appoggiano e si esercitano per restituire immagini che sono in realtà corpi (forse ultracorpi) di cui si avverte, in uno strano e fastidioso, perché inconciliabile, paradosso, la corporeità ma non il peso, l’essenza ma non la presenza, la figurazione e l’astrazione, perché la forma tradisce sé stessa senza perdersi. Si stenta a credere d’essere al cospetto di fotografie tanto l’effetto è pittorico, pulsante, vitale. Così accade che osservando si è trasportati in un mondo inesistente, costantemente in equilibrio tra una formale figurazione e un’esperienza astratta; costantemente alle prese con luci e con ombre che non si contendono la rappresentazione ma la costruiscono, armoniose e collaborative: sono lì, ma dove? dove si proietta l’ombra di quella corrugazione? su quale crepa la luce indugia? Ma è ricerca senza fine e sforzo vano: e molto appagante. Architettura come pretesto, dunque: tra il luogo dello scatto e l’opera finale, infatti, non ci sono contatti; c’è solo il processo artistico e, soprattutto, il corpo dello spettatore che si avvicina e allontana e che danza tra l’immagine presente e la sua ri-creazione mentale ed emotiva. Queste fotografie (e parte del merito è anche nella scelta della speciale carta di stampa) esprimono una matericità sensuale; una mano suadente, vellutata… bilanciate, tuttavia, dalla castità di un allestimento lineare e semplice. Esso raggruppa le opere per sottili analogie: così al piano terra si affiancano pattern geometrici dalle cromie tenui e diafane, più oltre si accendono i colori e i volumi di cubi e di archi che giocano ora a ritrarsi nell’abisso ora a balzarne fuori e che lasciano il campo (primo piano) a geometrie elementari che si trasformano in accoglienti vani sinuosi. Nell’ultimo ambiente, quasi ‘cripta’, in cui domina un bianco sponsale, venato di burro, di grigio, si sta come alla soglia di un turbamento, di un capogiro quasi divino. (Vertigine oltremondana nel centro metropolitano). In questi lavori, guardando una lenta parete rocciosa colante su un arco di fiamma (Lucknow 3, 2024) o i ricami petrosi di una piccola nicchia (Hampi 10, 2024), si avverte una piena coscienza fotografica oltre la quale si coglie l’incessante affaticarsi del pensiero. Noterella d’attualità. Nella società in cui ogni dispositivo vomita senza sosta immagini, Andric sembra invitarci a consumarne poche e produrne ancora meno, per guardare meglio e fotografare di più.
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